L’innovazione tecnologica della P.A.: dallo Stato autoritario all’umile cittadino

Teoria Generale del PT

Il Codice dell’Amministrazione Digitale, la Magna Charta di una nuova realtà amministrativa (Bertoni), rappresenta il frutto maturo di una lunga e complessa riforma, in senso strutturale e culturale, della Pubblica Amministrazione simbolicamente iniziata con la legge 7 agosto 1990, n. 241 ed ancora oggi in corso di attuazione.

La riforma digitale della P.A. trova fondamento nelle scoperte ed invenzioni tecnologiche nate dalla corsa verso le nuove tecnologie belliche, offensive e difensive realizzata durante gli anni del secondo dopoguerra. I momenti più significativi di questo sviluppo tecnologico, che non ha ancora raggiunto la fase discendente della sua parabola evolutiva, sono rappresentati: dalla microelettronica, la cui nascita è collocabile, simbolicamente, nel 1947 nei Bell Laboratories di Murray Hill nel New Jersey dove venne inventato il transistor e con esso la possibilità di trasformare gli impulsi elettrici in un codice binario utilizzabile, in estrema sintesi, per comunicare con le macchine in modo rapido e sempre più complesso; dal computer, strumento ormai paragonabile, per diffusione ed uso, ad un comune elettrodomestico, anch’esso concepito dalla seconda guerra mondiale (madre di tutte le tecnologie); da Internet la cui ideazione e realizzazione rappresenta il frutto di una sinergica commistione tra la classica strategia militare e l’innovazione imprenditoriale di una nuova generazione di studiosi e ricercatori. Sulla base dei tre mattoni appena citati (microelettronica, computer, internet) è oggi costruita la società dell’informazione in cui la stessa P.A., essendone parte, è costretta ad interagire e relazionarsi.

Nel corso di questi ultimi anni si è sempre più di frequente considerato l’agire della P.A. come il teatro di un inconciliabile e moderno conflitto interiore del diritto amministrativo. Tale reazione di rigetto è causata, come già evidenziato nelle premesse, dai principi liberali presenti nella Costituzione e nel diritto comunitario. Si è diffusa, tra gli studiosi e pratici del diritto, l’esigenza, quasi catartica, di rileggere attraverso le lenti dei principi liberali e democratici, acquisiti attraverso lunghi anni di complesse evoluzioni culturali, l’agire della Pubblica Amministrazione.

La P.A. deve rendere conto ai cittadini del suo operato e questi ultimi devono poter controllare l’esatto svolgersi delle dinamiche relative alla gestione della “cosa pubblica”. Tuttavia, nel sistema giuridico/sociale italiano è stata sempre diffusa, a partire da un livello che può essere definito epidermico sino a quello più profondo ed intimo, una concezione autoritaria dello Stato in sé e del suo momento di incontro/scontro con i singoli individui che ne costituiscono l’aspetto sociale.

L’intima natura dei rapporti tra chi detiene il potere, l’autorità governante, e chi è oggetto dell’esercizio del potere, i governati, in fondo non appare essere mutata nel corso dei secoli.

La stessa rivoluzione francese, con le sue epocali conseguenze, è riuscita a colpire solo la struttura formale dell’antico regime senza modificarne la struttura sostanziale.

La rivoluzione è riuscita a mettere da parte la figura del Re e la sua “sacra” icona; però, purtroppo, non è riuscita a scalfire la forza posta alla base della struttura rappresentativa che ha reso lo Stato una persona giuridica portatrice di interessi propri da realizzare attraverso forme di potere autoritario. Questa visione dei rapporti tra governanti e governati ha condotto inevitabilmente ad identificare lo Stato come un’entità portatrice di interessi diversi da quelli del singolo e della sua stessa collettività.

L’atto amministrativo si configura, così, nella sua intima essenza come un chiaro momento di sintesi tra l’autorità del soggetto P.A. e l’elemento volontaristico di derivazione privatistica comune ad ogni agire. La prima componente dell’atto amministrativo è connessa, per forza intrinseca e in modo indissolubile, all’idea di autorità intesa come: « …il potere dell’uomo sull’uomo, e quindi individua una posizione di supremazia che consente a taluno – al portatore di potere e dell’autorità, appunto – di imporre il proprio giudizio e più semplicemente la propria volontà agli altri» (SATTA). Tale processo evolutivo appare legato alla nascita stessa dello Stato ed alla cosciente rinuncia ad un sistema di relazioni interpersonali di natura contrattuale, paritaria, a favore di un complesso apparato autoritario in cui il potere è delegato ad assemblee ristrette (oggi) o a singoli individui (nel passato). Si crea un’entità nuova distaccata dalla società e dagli individui di cui essa è espressione di volontà; tale entità, divenendo detentrice del potere di gestire, programmare e realizzare l’interesse collettivo, lo attua tramite atti di volontà caratterizzati da un sacro alone d’autorità.

«Immaginificamente e schematicamente si può dire che in un certo momento della storia, l’autorità morale di chi promuoveva il consenso dell’assemblea intorno alla propria proposta venne istituzionalizzata, con la creazione di un organo, dell’assemblea e della collettività; ma in quello stesso momento l’organo per ferrea legge di natura, cominciò anche ad avere vita propria, diversa e contrapposta alla vita della società» (SATTA).

Questo nuovo soggetto non si mette in relazione con la comunità e con i suoi singoli membri utilizzando meccanismi di natura paritetica ma adotta dei meccanismi che sono il riflesso della posizione di superiorità che ne costituisce l’intrinseca ed antica essenza. Questa prima constatazione descrive, in modo intuitivo, solo una faccia della medaglia: lo Stato interagisce con gli individui (soci) attraverso strutture e con modalità autoritarie in cui la trasparenza e la possibilità di interazione da parte dei governati è pressoché inesistente o totalmente rilasciata all’iniziativa pubblica.

La “personificazione” ha determinato lo scollamento tra lo Stato, ormai “persona autonoma” dotata di una vita e di fini propri, e la società consapevolmente costituita da individui eteronomi.

Lo Stato, a causa di questo meccanismo culturale, viene posto ad un livello sovraordinato ai singoli. Lo stesso soggetto che amministra in nome dello Stato, o di una qualsiasi sua appendice burocratica, è dotato di una “qualità”, pubblico ufficiale, che sembra elevarlo al di sopra di una qualsiasi altra persona comune anziché considerare tale posizione come un onere.

Il diritto amministrativo, dopo secoli d’arroganza, si trova a dover compiere un atto d’umiltà ed esercitare una funzione “modesta” al servizio della collettività.

«L’orizzonte concettuale in cui si svolge la teoria delle funzioni pubbliche viene, così, definitivamente spostato dallo Stato, colto nel momento in cui agisce per il perseguimento dei propri fini, all’ordinamento statale visto nella dinamica della sua propria attuazione. Ciò che ora diventa il necessario punto di riferimento per la qualificazione dell’attività pubblica non è più l’uno o l’altro scopo dello Stato, ma la norma fondamentale regolatrice dell’ordinamento statale, a cui l’azione pubblica si riconnette e da cui prende slancio e direzione. In questo senso funzione pubblica è ogni attività che si costituisca come realizzazione dell’ordinamento, nella logica della produzione ed applicazione del diritto o anche di semplice obbedienza al diritto» (MARONGIU).

La sacralità può essere considerata un attributo solo della sovranità popolare e non dello Stato in sé e del suo supremo e indeterminato interesse pubblico.

«Del resto, l’amministrazione negli ordinamenti contemporanei che si reggono sul principio di legalità non può essere nella sua essenza se non un’attività doverosa, che in tanto si legittima in quanto tende alla realizzazione dell’ordinamento di cui è funzione» (MARONGIU).

Questa premessa di ordine generale sulla visione autoritaria della Stato è necessaria per poter comprendere le difficoltà che oggi vive la P.A. nel tentativo di adeguarsi ad una rivoluzione che non è solo digitale ma anche e soprattutto culturale. La P.A. non può più rimanere sorda alle richieste dei cittadini ma deve e può, alla luce degli strumenti tecnologici a sua disposizione, rendere dei servizi in modo economico ed efficiente rispettando le norme poste a tutela della persona e della sua dignità.

I servizi pubblici devono essere considerati, appunto, “servizi” e non “momenti di autorità” completamente avulsi dalla richiesta dei soggetti interessati che hanno il diritto di riceverli in modo rapido e corretto. Tuttavia, per modificare la visione autoritaria della P.A. e rendere la stessa efficiente è stato necessario innovare i momenti più importanti della sua struttura e dei suoi procedimenti. Il primo settore da innovare necessariamente era quello dell’acquisizione, dell’archiviazione e della gestione dei documenti: linfa vitale di ogni settore dell’amministrazione pubblica. Quello che palesemente apparve non più procrastinabile fu il bisogno di creare delle sinergie tra i vari settori e comparti della P.A., troppo spesso tra loro isolati a causa di una incomunicabilità atavica dovuta non solo a carenze strutturali ma anche e principalmente all’utilizzo di diversi “linguaggi” e procedure che rendevano le stesse amministrazioni pubbliche una comunità in cui i singoli soggetti parlavano e scrivevano utilizzando lingue e “velocità” diverse.

È la legge 15 marzo 1997, n. 59 a rappresentare il vero punto di rottura con il passato e l’inizio di una profonda riforma culturale della Pubblica Amministrazione e dei suoi meccanismi documentali. Il “mattone” logico e giuridico su cui si è, in breve tempo, costruita una nuova concezione del “documento amministrativo”, non più inscindibilmente legata ad una dimensione cartacea ma ad una natura squisitamente informatica, è rappresentato dall’art. 15, secondo comma, della legge n. 59 del 1997: «Gli atti, dati e documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati con strumenti informatici o telematici, i contratti stipulati nelle medesime forme, nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici, sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge».

Nel momento in cui l’informatica entra nella P.A. snellendone i procedimenti e rendendo più rapide ed efficaci le ricerche documentali il primo passo verso un’amministrazione efficiente è stato compiuto.

Il passo successivo è rinvenibile nell’esigenza di implementare l’interazione tra i diversi rami della amministrazione, ma ancora una volta il punto cruciale rimane quello di superare una barriera culturale che finché si ergerà forte nella mente di chi è chiamato a svolgere tali importanti servizi non consentirà una piena e compiuta riforma. Il fulcro su cui fare leva per sollecitare un rinnovamento capillare delle strutture amministrative è oggi il diritto riconosciuto dall’art. 3 del Codice dell’amministrazione digitale (D.Lgs. 7 marzo 2005 n. 82): «I cittadini e le imprese hanno diritto di ottenere l’uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche amministrazioni e con i gestori di pubblici servizi statali nei limiti di quanto previsto nel presente Codice».

L’attacco alla visione autoritaria dello Stato, come già anticipato, è stato determinato da una lenta e costante opera di ampliamento e di affermazione dei diritti della persona nel rapporto intercorrente tra governanti e governati. Tra i diritti che più di altri appartengono alla sfera intima della persona vi è sicuramente quello relativo alla riservatezza ed al rispetto della vita privata. L’affermazione di questi diritti e il loro evolversi nell’ambito della società moderna in cui i rapporti e le relazioni interpersonali, reali e/o virtuali, sono basate sulla stessa informazione determina alcune problematiche piuttosto complesse.

Il problema principale nasce nel momento in cui l’estrema libertà caratteristica delle nuove tecnologie della comunicazione si pone in rapporto con il diritto a vedere tutelati i propri dati personali utilizzati e sfruttati per scopi ignorati dall’utente.

La diffusione di questa realtà rende evidente, con tratto grave,  la difficoltà di perimetrare i confini che intercorrono tra la libertà di inviare/ricevere e cercare/trovare informazioni, da un lato, e la tutela della riservatezza della persona e dei dati ad essa appartenenti, dall’altro.

La vasta zona d’ombra è provocata dal conflitto, difficilmente risolvibile con gli attuali strumenti giuridici, tra due contrapposte esigenze, entrambe meritevoli di interesse e protezione da parte dell’ordinamento giuridico (GRIPPO):  l’estremo vantaggio economico, sociale e culturale che la libera circolazione delle informazioni riesce a produrre; l’estremo rischio della riduzione del singolo individuo ad un ritratto virtuale ottenuto dal rinvenimento e dal trattamento di dati personali sparsi durante l’utilizzazione delle nuove tecnologie della comunicazione.

In particolare, questa ultima considerazione si colora di specifiche sfumature giuridico-amministrative alla luce del problema relativo all’applicabilità della normativa sulla tutela della riservatezza nelle pubbliche amministrazioni.

In base a tale necessità si contrappongono due esigenze: il principio della trasparenza dell’azione amministrativa, e quindi della pubblicità e conoscibilità degli atti delle pubbliche amministrazioni, sancito dalla legge n. 241/1990 e il principio della tutela della riservatezza.

Come si può facilmente intuire entrambi i principi hanno rilevanza costituzionale essendo l’uno espressione dell’imparzialità e del buon andamento e l’altro della tutela dei diritti inviolabili della persona.

Il rischio di non poter controllare l’utilizzo dei dati personali utilizzati per “muoversi ed operare” nella società dell’informazione è congenito alla stessa natura delle tecnologie utilizzate.

Accanto alla capillare diffusione delle nuove tecnologie informatiche è necessario  diffondere a tutti i livelli della società la consapevolezza dei costi e dei rischi ad essa connessi.

Mentre i rischi sono accettati come possibili, i costi da sopportare sono certi e non sono solo quantificabili in termini monetari, ma anche e principalmente in quantità di privacy da voler spendere e conservare.

Questa consapevolezza deve essere ancora maggiore nell’ambito della P.A. poiché la stessa si trova a fagocitare, per l’esercizio delle funzioni istituzionali, una serie infinita di dati ed informazioni relative a tutti membri della società.

Lo Stato inizia a registrare e trattare i nostrI dati personali sin dalla nascita e continua a trattarli anche dopo la nostra morte. Se nel passato tutte queste informazioni si trovavano sparse fisicamente in archivi dislocati in posti fisicamente diversi ed era pressoché impossibile, se non investendo ingenti risorse, ricostruire ed organizzare tutti i dati e le informazioni relative ad una persona, oggi questo ostacolo fisico e temporale non esiste più.

Le tecnologie informatiche applicate all’archiviazione e gestione delle informazioni non hanno creato effettivamente delle nuove conoscenze che si vanno ad aggiungere alle precedenti inserite dalla mano dell’uomo, ma grazie alle elaborazioni delle preesistenti riescono a gestire in modo più incisivo, rapido e completo i dati disponibili.

Ogni informazione, fisicamente inserita in tempi e luoghi diversi, nel momento in cui si aggiunge, affiancandosi, alle altre contenute nelle varie banche dati perde l’originale rapporto spazio-temporale con le precedenti e le successive per venire elaborata e trattata in funzione del suo intrinseco contenuto ed ordinata, di volta in volta, in funzione dell’interrogazione che l’utente, “cacciatore d’informazioni”, rivolge al sistema “elaboratore”.

Il surplus è dato dall’enorme vastità di notizie e nella capacità altamente selettiva che gli elaboratori elettronici mettono a disposizione dell’utente. La novità, quindi, risiede nella capacità di trovare in tempi brevi e con poco dispendio di energie l’ago, rappresentante l’informazione cercata, negli enormi pagliai messi a disposizione dalle nuove tecnologie della gestione digitale delle informazioni.

Per questi motivi, oggi ancora più di ieri, la Pubblica Amministrazione è investita di un’enorme responsabilità nel gestire in modo sicuro le proprie banche dati sempre più dettagliate, interattive e interconnesse.

Il Codice dell’amministrazione digitale, in più punti, sottolinea che il diritto all’uso delle tecnologie informatiche nei rapporti con la P.A. e tra P.A. deve essere improntato e reso operante nel rispetto delle norme di sicurezza e di protezione dei dati personali in modo da garantire l’esattezza, la disponibilità, l’accessibilità, l’integrità e la riservatezza degli stessi.